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EVERYBLOODY’S END: Intervista a Claudio Lattanzi

Ho conosciuto Claudio Lattanzi nel 2018, durante la 38esima edizione del Fantafestival di Roma, l’ultima organizzata da me e Marcello Rossi.

Tra i titoli di punta selezionati quell’anno Claudio era venuto a presentare il suo Aquarius Visionarius, un documentario-monumento dedicato alla carriera del regista Michele Soavi, a cui Lattanzi è legato da un rapporto di amicizia e di collaborazione [con lui ha diviso i set di Dario Argento’s World of Horror, Deliria e La chiesa].

Sempre durante quell’edizione del festival, insieme a Claudio e ad un nutrito gruppo di collaboratori, presentammo al pubblico un estratto dal suo nuovo lungometraggio in lavorazione.

Un film dal titolo strano e affascinante, Everybloody’s End, che conquistò da subito l’attenzione del pubblico e i complimenti [per alcuni espedienti di regia] nientemeno che di Luciano Tovoli!

Claudio Lattanzi rimase molto abbottonato riguardo al film. Fino a qualche giorno fa il mistero sulla trama, sugli argomenti trattati in Everybloody’s End era rimasto a protezione del film.

Di questo progetto si sapeva qualcosa per quanto riguarda il cast, che riunisce alcuni nomi sacri del nostro horror [da Giovanni Lombardo Radice a Cinzia Monreale, da Marina Loi ad Antonio Tentori e Sergio Stivaletti] ad altri più giovani [Veronica Urban e Nina Orlandi], arrivando a coinvolgere anche qualche alfiere della nuova guardia indie horror made in Italy [Ivan Zuccon alla fotografia e Lorenzo Lepori nel cast].

Ora che ho visto finalmente il film, che Digit Movies e Home Movies hanno da poco portato negli store in DVD e Blu-Ray, capisco il motivo di questa segretezza.

Everybloody’s End è un film raffinato. Un horror d’autore elegante, ma anche bugiardo e ingannatore [in senso buono]. Racconta una storia che sembra essere stata partorita dalla verità sociale e sanitaria di questi giorni, ma sta solo tentando di irretire chi guarda, prima di affondare nel petto un coltello ancor più affilato. A sorpresa. E ha un finale che incanta!

Per trovare le parole giuste per parlare del film senza raccontare troppo, abbiamo incontrato il regista…

[Luca Ruocco]: Ciao Claudio. Prima di tutto mi piacerebbe che raccontassi ai lettori di InGenereCinema.com dei tuoi primi passi nel mondo del cinema e della tua collaborazione con Michele Soavi.

[Claudio Lattanzi]: I miei primi passi nel mondo del Cinema sono quasi avvenuti in contemporanea con la conoscenza di Michele Soavi. Solo pochi anni prima avevo cosciuto realmente Dario Argento, era 1982 e lui doveva uscire in sala con il film Tenebre. All’epoca ero amico di Susanna Biondo, figlia del proprietario degli International Recording, un importante studio di doppiaggio e missaggio dove andavano tutti i più grandi nomi del cinema italiano. Susanna sapeva della mia grande passione per il cinema di Argento e un giorno mi chiamò per dirmi che Dario stava lavorando ad un anello di doppiaggio del suo ultimo film, Tenebre, proprio lì da loro. Me lo avrebbe presentato e avrei potuto assistere ad una parte del lavoro. Avevo la possibilità di conoscere il mito della mia vita e, ovviamente, accettai di corsa. Mi ricordo che conobbi sia Dario Argento che Daria Nicolodi. Dario fu molto gentile e diede il suo OK perché seguissi il doppiaggio di questo anello di 3 minuti di film. A livello embrionale, credo che questo incontro con Dario possa essere considerato il mio primo passo nel mondo del cinema. L’incontro che, però, mi portò realmente e professionalmente a fare cinema fu quello con Michele Soavi. Lo conobbi durante i primi mesi del 1985. Anche in quell’occasione ero stato avvisato che in un locale ci sarebbero stati Dario Argento e il suo aiuto, in quel momento stavano girando Phenomena. Chiaramente mi faceva molto piacere rincontrare Argento, ma ero già sicuro che non si sarebbe mai ricordato di me, dopo tre anni. Pieno di dubbi decisi di passare ugualmente in quel locale e trovai davvero Dario Argento e Michele Soavi. Mi feci ripresentare e riuscii a parlare con loro della mia passione per il thriller e di alcuni cortometraggi in pellicola che avevo girato. Soavi iniziò ad interessarsi alle cose che facevo, era incuriosito. Grazie a questo rapporto che stava nascendo riuscii a chiedere a Michele il permesso di partecipare come spettatore alle riprese dell’ultima scena di Phenomena, sul lago di Bracciano. Mi sarebbe piaciuto entrare nel mondo del cinema come assistente alla regia… e Michele fu molto gentile e grazie a lui partecipai a due giornate di riprese per il finale del film. Verso il mese di ottobre del 1985 mi risentii con Michele che stava per lavorare ad un documentario commissionato dal Giappone sul cinema di Dario. Sarebbe stata la sua prima regia. Michele sapeva della mia grande passione per Argento, soprattutto per Suspiria, un film che – come dico sempre – ho visto 77 volte solo al cinema. Lo conosco davvero a memoria, è il film che ha segnato la mia vita. Proprio grazie a questa mia grande conoscenza della materia, Soavi mi chiese se volevo fargli da assistente. Ovviamente accettai di corsa! Cominciammo questo lavoro che durò tre mesi, per l’edizione italiana, e da gennaio partì l’edizione per l’estero. Dario Argento’s World of Horror fu un’esperienza bellissima che mi permise di entrare nel mondo del cinema dall’ingresso principale. Un documentario che raccontava tutto il cinema firmato da Dario fatto fino a quel momento: da L’uccello dalle piume di cristallo a Phenomena. Da qui nacque una lunga e proficua collaborazione con Soavi. Dico sempre che grazie ad Argento ho conosciuto il cinema thriller e horror, perché i suoi film sono riusciti a destabilizzarmi dal punto di vista filmografico e filmologico, è una sorta di mio padre putativo. Però senza Soavi non avrei mai conosciuto il cinema professionale, lo stare sui set e il fare i film. Dopo il Dario Argento’s World of Horror, Michele si trovò talmente bene e in linea con me che negli anni successivi mi chiamò a fare da aiuto regista su Deliria e da assistente alla regia in La chiesa, prodotto da Argento nel 1988.

 

[LR]: Nell’’87 dirigi il tuo primo lungometraggio: Killing Birds, l’apocrifo Zombie 5 prodotto dalla Filmirage di Joe D’Amato…

[CL]: Facendo l’aiuto a Soavi su set di Deliria conobbi Aristide Massaccesi, che con la sua Filmirage stava producendo il film. Michele mi presentò Massaccesi proprio quando lui gli propose di produrre il suo primo film da regista. Ho molti ricordi della lavorazione di Deliria, un film in cui entrai quando lo script era già stato scritto, ma che poi seguii in tutti i suoi altri aspetti, dalla preparazione alla post. Io e Michele eravamo entrambi molto giovani e per noi il lavoro non finiva con le riprese sul set, continuavano anche a cena e nelle discussioni subito dopo per ripensare le scene da girare il giorno successivo. Aristide Massaccesi era un grosso professionista, sempre disposto a dare una mano ad un giovane che volesse iniziare a muovere i primi passi nel mondo del cinema. Conoscendolo mi proposi anche dopo la fine del film Deliria, mi sarebbe piaciuto firmare uno script, ad esempio. A Natale del 1986 scrissi un soggetto che si intitolava The Obsolete Gate, una storia classica, un po’ stile La casa di Sam Raimi, ma con qualche intuizione interessante. La proposi ad Aristide che stava cercando soggetti per i suoi prossimi lavori. Gli lasciai le pagine che avevo scritto e lui mi disse che mi avrebbe richiamato dopo averle lette. Così fece, mi telefonò e mi disse con un simpaticissimo accento romano: “Claudio, ho letto ‘sta cazzata. Vieni in ufficio e ne parliamo.”.  In questo modo nacque Killing Birds. Aristide mise mano allo script di The Obsolete Gate per renderlo più affine a quello che stava cercando. Il soggetto originale parlava di un gruppo di musicisti che si ritiravano in una casa isolata per comporre delle musiche che riuscissero ad adattarsi ad una serie di immagini molto violente. In questa casa abbandonata i musicisti trovano una pergamena con uno spartito che, una volta suonato, riporta in vita un gruppo di zombi nazisti da un vicino cimitero tedesco. L’unico escamotage per fermare il tutto era suonare la musica al contrario. Ti dicevo, Aristide decise di cambiare alcune cose, a partire dalla location che spostò a New Orleans, dove stava lavorando da un po’ di tempo. Mi chiese di riscrivere il soggetto inserendoci gli uccelli, il picchio dal becco d’avorio, che è un volatile estinto della Lousiana… poi mi chiese di ripensare gli zombi in un certo modo… Insomma mi diede una serie di direttive che misi in pratica insieme alla mia co-sceneggiatrice Mariabruna Antonucci, che è anche una scrittrice di gialli. Arrivammo a chiudere un trattamento che si intitolava Artigli e che Aristide lesse e accettò e da lì mi propose di affrontare la mia prima regia, con lui sempre dietro a dare supporto e fare supervisione. Si stava pian piano avverando il mio sogno, che era quello di diventare regista. Il trattamento divenne una sceneggiatura grazie a Daniele Stroppa, ma devo dire che Artigli aveva intenti diversi e molto più potenti rispetto allo script che venne fuori dalle successive modifiche volute da Aristide… Lo script finale è stato un po’ accroccato anche rispetto a quello che avevamo, ad esempio aggiungendo un certo numero di scene per l’attore Robert Vaughn.

 

[LR]: Su “Killing Birds”, tra l’altro, si è sempre discusso riguardo l’apporto creativo [oltre che produttivo] di D’Amato. Pare ti abbia richiesto più volte di riscrivere parti dello script, per poi quasi reclamare la paternità autoriale del film. Ci racconti la tua versione dei fatti?

[CL]: Per quanto riguarda la paternità del film – adesso parlo della regia e del girato – il fatto che io fossi lì quasi per caso e che il vero regista del film fosse Aristide, questo lo nego categoricamente. Non è assolutamente vero. Anche perché se uno guarda attentamente Killing Birds può capire facilmente che il film è decisamente lontano dallo stile registico di Massaccesi, dal suo modo di girare. Chiaramente avevo lui dietro le spalle, un uomo di cinema esperto, quindi una presenza non facile da gestire… Abbiamo più volte litigato su alcune inquadrature o altro. Il film ha la mia paternità, l’ho seguito in tutto il suo sviluppo. Anche per le musiche di Carlo Maria Cordio feci delle ricerche molto precise. Insomma Killing Birds è un piccolo film, un’opera partorita e portata avanti in un certo modo e con un certo clima… ma uno di quei titoli che in America è ancora considerato un cult. Si lascia guardare e, devo dire, anche rispetto ad altri film di Genere dell’epoca, ha ancora un suo perché.

 

[LR]: Cosa succede durante il salto temporale che ci porta da Killing Birds al tuo documentario Aquarius Visionarius – Il cinema di Michele Soavi [del 2018] e poi al tuo ritorno all’horror?

[CL]: Una volta finito Killing Birds il salto temporale è stato lunghissimo. Però non è stato un momento morto. Mi sono dedicato ad altro, allontanandomi dal cinema per almeno sette o otto anni. Non mi interessava più relazionarmi con quel mondo e quelle persone. Subito dopo Killing Birds, però, sempre con Soavi feci La chiesa e poi La setta. De La setta feci 15 giorni di preparazione, ma durante questi giorni ci furono un po’ di cose che non potevo accettare a livello economico e di organizzazione. Abbandonai il set della produzione di Argento e Michele ci rimase molto male. Sul fronte di Aristide, invece, ci fu il caso de La casa 4. Io avevo intenzione di girare un altro film e gli presentai il soggetto de La casa 4. Stranamente, poi, in quel film non fui mai accreditato nemmeno come autore della storia. E questo fu il motivo per cui decisi di interrompere i miei rapporti con la Filmirage. Il mio La casa 4 era davvero molto più cattivo, c’era questa atmosfera un po’ alla Inferno di Argento, il personaggio di una strega che era un po’ la Morte… Aristide aveva ipotizzato anche la possibilità di scritturare Bette Davis per la parte della strega. Poi i pezzi del puzzle cominciarono a non incastrarsi: Aristide forse aveva deciso di puntare su un regista più conosciuto, infatti era stato contattato Luigi Cozzi, ma lui declinò. Da lì il progetto iniziò a sfuggirmi di mano: fu scritta una sceneggiatura molto più banale rispetto al soggetto originale e La casa 4: Witchcraft venne affidato a Fabrizio Laurenti, che si era presentato ad Aristide con un cortometraggio a tema vampirico che, devo ammetterlo, trovai interessante. Da lì venni allontanato in maniera scorretta dal progetto che avevo seguito fino a quel momento. Per farsi perdonare Aristide mi tirò dentro all’adattamento televisivo di un lavoro di Sergio Martino, Lo scorpione a due code. Mi sono occupato del montaggio in digitale e feci ri-musicare alcune parti. Gli anni a venire, fino ad Aquarius Visionarius, sono stati anni che mi hanno visto impegnato sulla scrittura di alcuni romanzi gialli, sulla lavorazione di alcuni progetti fiction, mi sono dedicato ad un tipo di creatività più letteraria. Mentre il cinema stava traghettando nel digitale, grazie a Stefano Balassone [uno dei “fondatori” di Rai3], ho scritto alcuni format televisivi, ho girato alcune puntate pilota di quiz TV… Mi sono rimesso in gioco e ho iniziato a conoscere tutte le nuove tecniche… Fino ad arrivare fino al 2006, quando un corto scritto da Mariabruna Antonucci dal titolo La vita è già finita? riceve il finanziamento come opera di interesse culturale nazionale. Si tratta di corto molto strano… un po’ fantasy, un po’ noir. E’ un corto che mi ha dato molte soddisfazioni, sia sul set che nei festival. Dopo questo ho fatto alcuni altri lavori, che mi hanno portato ad Aquarius Visionarius e EveryBloody’s End.

 

[LR]: Negli extra del Blu-Ray di EveryBloody’s End tu e Antonio Tentori fate qualche accenno riguardo alla nascita del film. Parlate di un incontro al quale seguì il tuo invio di qualche riga di quella che sarebbe diventata la sinossi del tuo film. Ci racconti come è andata e quanto si è evoluto il progetto dall’inizio di questa collaborazione con Tentori?

[CL]: Penso che il mio ritorno all’horror sia dovuto a due cose. Innanzitutto all’interesse suscitato dal mio documentario Aquarius Visionarius, soprattutto all’estero. Ma anche in Italia il documentario ha avuto ottimi riscontri al Tohorror e al Fantafestival. Questo mi ha dato la spinta per rimettermi in gioco. E’ stato, però, importante anche il momento storico che stiamo vivendo… In Italia il Genere horror non funziona più tanto bene, se non a livello indipendente, dove però non esiste assolutamente distribuzione. C’è il rischio di cadere in un oblio definitivo. Sono, però, film che, se girati in un certo modo, pur a basso budget possono essere opere molto interessanti. Piccoli film, ma non per questo non importanti. Per Everybloody’s End avevo fin dall’inizio delle idee precise: volevo ricreare un forte collegamento con il nostro horror anni ’80, quindi trovare degli attori iconici che rimandassero proprio a quel tipo di cinema. Quindi partire da un’idea molto semplice e costruire pezzo per pezzo, andando a richiamare professionisti con cui avevo già lavorato nel mio passato cinematografico e contattare altri nomi noti della nostra cinematografia di Genere. Pensa che tutto è partito dal finale, avevo questa idea meta-cinematografica ambientata nella sala di un cinema. Un ricongiungimento tra una sposa e uno sposo. Una scena che può risultare slegata dal resto della storia, ma che potevo tenere come focus del film proprio perché ero libero da qualsiasi dinamica produttiva. Ero cosciente, comunque di una cosa: pur guardando al cinema degli anni ’80, Everybloody’s End doveva essere capace di parlare anche con il pubblico giovane, con chi oggi frequenta la sala e cerca i film horror. La prima persona che ho contattato è stato Antonio Tentori, mio amico da tanto tempo, ma sceneggiatore con cui non avevo mai collaborato. Lui ha vissuto quegli anni del nostro cinema e conosce e condivide i miei gusti cinematografici. Insomma, ho incontrato Antonio e in quel momento avevo solo le poche righe della scena finale del film, che però io consideravo quasi già un soggetto. Quando gliele ho inviate via email, Antonio ha accettato di entrare a far parte del progetto, ovviamente dicendomi che stavamo partendo da una visione che lo aveva catturato da subito, ma che il soggetto andava costruito insieme, mettendo radici proprio in questa scena finale, che poi è rimasta a chiudere il mio nuovo film.

 

[LR]: EveryBloody’s End nasce anche [e soprattutto] dal tuo amore verso il Genere horror. Un amore che dichiari ad alta voce già andando a ricercare i tuoi attori e i tuoi collaboratori all’interno di un bacino ben preciso, ma che affonda le radici nel cuore dei racconti gotici e dell’horror più classico in stile Hammer. Come nasce al tua passione per l’orrore?

[CL]: Una volta coinvolto Antonio Tentori nel nostro progetto, dovevamo dare un senso a questo nuovo progetto. Dovevamo creare un mondo nuovo, un contesto originale in cui inserire in modo organico il finale da cui tutto era partito. Un tipo di lavorazione che ricorda molto quella di un giallo, che di solito si costruisce partendo proprio dal finale, dal colpo di scena, per poi creare la serie di eventi che si concatena per arrivare proprio lì. Sapevamo di dover costruire un film a basso budget, quindi per prima cosa abbiamo deciso di ambientare la storia all’interno di un’unica location: il bunker. Volevo che ci fossero cinque personaggi, in qualche modo bloccati dentro questo luogo chiuso, che lottassero per la vita. Da questo input cominciammo a sviluppare il soggetto del film. All’inizio avevo intenzione di pensare a EveryBloody’s End come ad un accorato omaggio ai classici della Hammer Film, film di cui da giovane mi sono cibato avidamente! Adoravo Christopher Lee. Per me il film più cattivo che fece la Hammer è Il marchio di Dracula. Forse qualche riferimento alla Hammer Film è rimasto nella scena del prologo, perché poi sviluppando i personaggi e la sceneggiatura abbiamo abbandonato naturalmente i riferimenti a quel tipo di cinema. Quelli erano film molto colorati, pieni di sangue, molto eccessivi. Io invece sentivo di voler girare un film molto più vicino all’Espressionismo Tedesco, quasi in bianco e nero, utilizzare luci caravaggesche che invadevano la scena. Anche l’utilizzo della violenza e del sangue è cambiato. Con Antonio abbiamo inserito pochissime scene di questo genere. Il film è comunque pieno di rimanti al cinema horror in generale, inquadrature e altro che magari rimandano ad alcuni film noir francesi, film americani… Ci sono delle influenze che derivano dai film di Jesus Franco e Paul Morrissey. In post ho cercato di virare i colori verso un blu ancora più estremo: mi interessava girare un film senz’aria, senza sole. Con dei personaggi costretti a rimanere dentro questo strano luogo, perché fuori c’è l’Apocalisse. E oggi ho trovato strani collegamenti tra il film e la realtà che stiamo vivendo: si parla di un virus trasmesso per via aerea, di un paziente zero che ha avuto in qualche modo connessione con un pipistrello… Insomma, volevo fare un film diverso. Ma era difficile fare un film diverso che però riuscisse a richiamare anche gli horror anni ’80. Quello che dovevamo fare era riuscire a non renderlo banale. Rimanere con un piede nel Genere del passato con cui volevamo apparentarci e con uno in quello del futuro. Tutto nel film è senza tempo, dai costumi a questo luogo/non-luogo in cui sono rinchiusi i personaggi. Quasi un film da camera, un atto teatrale unico in cui si gioca il destino dell’intera umanità. E’ un film semplice, un film di vampiri, ma allo stesso tempo è un film stratificato! E’ un atto d’amore verso un cinema che noi abbiamo vissuto, un cinema horror che oggi è morto… e che non sappiamo se risorgerà. E’ un film tra lo sperimentale e l’autoriale, come hanno detto a Sitges durante la prima proiezione pubblica. E’ un lavoro molto profondo, in cui mi sono divertito a girare come volevo, visto che non avevamo nessuna pressione produttiva. E’ un elogio al male, ma è allo stesso tempo un film in cui il male non prevale, visto che il finale è un omaggio al cinema stesso.

[LR]: Con il tuo ultimo lungometraggio, però, cerchi anche di costruire un ponte tra il nostro horror più classico e storicizzato e quello più contemporaneo e underground. E’ una cosa che fai sia in superficie [la scelta dei tuoi collaboratori che mescola le carte di due mondi paralleli e di due temporalità dell’horror made in Italy], sia più a fondo, con il tipo di racconto che sembra mostrare un impianto classico, da dramma da camera con appigli allo sci-fi post-atomico, per poi mostrare un’anima nera post-moderna. Parlaci degli intenti, non solo narrativi, del tuo ritorno all’horror.

[CL]: Volevo un film diverso, un film che raccontasse l’horror in maniera molto personale, che non puntasse su jumpscare meccanici. E sono contento di aver avuto al mio fianco una ciurma della malora favolosa! Tre attori iconici come Cinzia Morreale, Giovanni Lombardo Radice e Marina Loi. Tre persone professionali ai massimi livelli e molto disponibili. Ringrazio anche i tre attori più giovani, che sono Veronica Urban, Lorenzo Lepori e Nina Orlandi. E poi come potrei non ringraziare tutti i tecnici: Sergio Stivaletti agli effetti speciali; Michele Brogi che è il film-editor, che è colui che ha montato anche Aquarius Visionarius; Massimo Antonello Geleng che è stato il supervisore alla scenografia, di Antonio Tentori alla sceneggiatura abbiamo già parlato… Ivan Zuccon alla direzione della fotografia; Tullio Arcangeli per il sound design e il maestro Luigi Seviroli alle musiche che, devo dire, sono state molto molto importanti, perché volevo che in alcuni punti fossero i rumori a trasformarsi in suono. Un commento musicale che accompagna ma non invade e diventa protagonista nei momenti sinfonici. Penso di aver fatto davvero un film diverso.

 

[LR]: Visto che ho già parlato del tuo film nella puntata di giugno di Nel Frattempo in Redazione… [che potete vedere qui], sbagliando tutte le volte a pronunciarlo… Non posso esimermi dal chiederti come nasce il titolo Everybloody’s End.

[CL]: Ho visto che hai sbagliato almeno 15 volte la pronuncia di Everybloody’s End e sempre mettendo al “s” sul finale di “End”. Ti perdono, però. Guarda, parto dal presupposto che trovare un titolo sia difficilissimo. Non sono neanche bravo a ideare i titoli dei film o delle storie. Everybloody’s End è stato partorito da un mio amico e collaboratore che si chiama Federico M. Monti, che è un saggista e uno scrittore di storie molto particolari, noir e horror. All’inizio ho incontrato qualche difficoltà, soprattutto quando la gente doveva parlare del film che, in lavorazione, ha avuto due titoli molto “romeriani”. Inizialmente si intitolava The Last Dawn [L’ultima alba]. Poi in preparazione era diventato Comdamned [Condannati], però anche questo lo trovavo troppo anni ’80. Poi una sera a cena ho raccontato la storia a Federico e gli ho chiesto consiglio. Dopo un paio di giorni mi richiama e mi dice che secondo lui un buon titolo sarebbe stato, appunto Everybloody’s End, perché in italiano significa qualcosa come “Il sangue di ognuno finirà”. Ed è proprio questo che succede nel film, perché la storia tratta di vampiri, anche se un po’ diversi, destabilizzati, estremizzati. Poi c’è la vicenda del virus, che viene portato in giro col vento, ma il sangue è il vero veicolo di infezione. Quindi quando il sangue di ognuno finisce, finisce anche l’intera umanità. Per lasciare spazio ad una nuova umanità. Una nuova esistenza e forse un nuovo cinema.

 

[LR]: Senza fare nessuno spoiler a riguardo, vorrei che spendessi ancora due parole sul finale del film. Un momento di cinema che diventa poesia, per quanto mi riguarda. Ci dici qualcosa in più sulla chiusa della vostra storia?

[CL]: Come ti anticipavo prima, il finale per me è il film! E’ il punto di partenza di tutto, un’idea che mi è venuta non so nemmeno esattamente come. Ho visto proprio la scena, un po’ diversa da come poi la ho realizzata, soprattutto per quanto riguarda la location, la sala cinematografica che immaginavo più degradata, abbandonata… per far capire l’evoluzione e la decadenza del cinema horror stesso. Ovviamente la problematica maggiore sarebbe stata quella di avere le autorizzazioni per girare all’interno di un cinema abbandonato, poi avremmo dovuto risolvere tutta una serie di questioni tecniche. Insomma tutto questo mi ha portato a ripensare la scena, grazie al supporto per le location della Scuola di Cinematografia che, oltre alle aule e al bunker, ci ha fornito anche la sala proiezione. Era un po’ troppo perfettina, però, e ho chiesto a Ivan Zuccon di farla risaltare in altro modo, utilizzando la luce in modo da trasformare quelle comode sedute quasi in sedili di marmo, come fosse un film in bianco e nero. Anche la vestale protagonista della scena si sarebbe dovuta rapportare con un’altra declinazione del personaggio del suo sposo. Tutto avrebbe dovuto riportare proprio al Christopher Lee de Il marchio di Dracula, ma ripensandoci su iniziava a sembrarmi troppo falsato, esagerato. La scelta che ho fatto successivamente ha esaltato ancora di più il messaggio di questa scena poetica, emblematica, potente, meta-cinematografica. Un momento di ricongiungimento di tutti noi con il cinema, prima della fine del sogno [o della vita], con il fotogramma che brucia.

 

[LR]: Digit Movies e Home Movies distribuiscono il film in diverse edizioni. La più completa?

[CL]: Sì, esatto. Digit Movies e Home Movies distribuiscono il film in tre diverse edizioni: c’è il DVD, il Blu-Ray e la limited edition, sia in BD che in DVD, che contiene anche il CD della colonna sonora. Sono tutte edizioni “complete”, gli extra non differiscono da un’edizione all’altra. Faccio un plauso alla Digit Movies di Luca De Silverio e alla Home Movies di Giacomo Ionnisci perché sono davvero due persone splendide. Accolgono consigli, con loro si riesce sempre a dialogare e ti permettono di seguire momento per momento la lavorazione del tuo film. Anche, ad esempio, la realizzazione delle grafiche di cover, curate da Giorgio Credaro. Non è facile essere presi così tanto in considerazione da un casa di distribuzione.

 

[LR]: Sei già al lavoro su un nuovo film? Puoi dirci qualcosa a riguardo?

[CL]: Sai meglio di me che, in questo ambiente, preparare un progetto non basta mai. Bisogna sempre tenerne pronti due o tre e portarli avanti in parallelo, fino a quando uno non prende davvero il via. Al momento, proprio grazie a Everybloody’s End e ad Aquarius Visionarius, devo dire che sto vivendo un momento molto fertile. Ho una serie di progetti in cantiere: su alcuni vorrei rimanere un po’ abbottonato, altri sono già in uno stato di lavorazione più avanzata. In uno di questi cerco di destabilizzare, dopo i vampiri di Everybloody’s, un’altra figura iconica dell’horror. Ovviamente non ti dirò quale, per non spoilerare! Questo film, però, ha bisogno di un budget più importante degli altri e siamo in attesa di sviluppi. Ho un altro film, che forse potrebbe partire per primo, che sto scrivendo in questo momento sempre con Antonio Tentori. E’ un film molto cupo, molto crudo… Un film sulla crudeltà vera, ma anche d’atmosfera. Girato anche in questo caso in una sola location. Sto lavorando anche ad un film, un noir, in co-regia con Antonio Lusci, scrittore e sceneggiatore [ha scritto Rabbia Furiosa di Stivaletti]… e poi ho un giallo alla Argento. Un film che ho scritto un po’ di tempo fa e poi ho abbandonato, ma che da un po’ di tempo ho ritirato fuori. Penso di poter dire ancora la mia nel campo del cinema underground e un po’ cattivo, un po’ estremo, e di poter raccontare ancora altri film in maniera davvero personale.

 

Luca Ruocco

Roma, luglio 2020

InGenere Cinema

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