Fragile virtù [Easy virtue], di Alfred Hitchcock, 1928, e scritto dallo stesso con Eliot Stannard [che nella sua carriera ha scritto 147 film, di cui sette diretti da Hitchcock] è il quinto film muto [di nove] del regista, tratto dal celebre dramma teatrale di Noël Coward, col medesimo titolo, del 1925.
Il rapporto di Hitchcock col suo Fragile virtù sarà da subito conflittuale, il regista lo considera il più brutto soggetto che abbia mai scritto. La casa cinematografica Gainsborough, di Michael Balcon, propose il film al maestro del giallo, che, per varie esigenze, accettò.
Londra. Larita Filton [Isabel Jeans], moglie di Aubrey Filton [Franklin Dyall, esilarante nei suoi sguardi, più diretti di qualsiasi altra parola], è una donna molto attraente. La denota un certo anticonformismo, che, unito alle altre qualità fisiche, fa di lei una delle donne più desiderate. Il signor Claude [Eric Bransby Williams], pittore di professione, incantato dalla bellezza e dall’eleganza della donna, le chiede di posare per lui. Finirà per innamorarsene, mentre Larita, attratta dai suoi modi gentili e dolci, così diversi da quelli di Aubrey, sempre ubriaco e violento, ne subirà il fascino. Un giorno però, Aubrey entra inaspettatamente nell’atelier, sorprendendo i due proprio nel momento in cui Claude si rivela a Larita. Gli equilibri si sono rotti, anche a causa della scoperta, da parte di Aubrey, del biglietto d’amore di Claude per Larita. Ne consegue una colluttazione, in seguito alla quale Aubrey intenta una causa contro la moglie, per chiedere sia il divorzio sia l’annullamento del testamento di Claude, che, suicidatosi, ha lasciato in eredità tutti i suoi beni a Larita, che uscirà perdente dal processo.
Per evadere dall’ostilità del clima londinese, Larita parte per la Costa Azzurra, ma anche lì la sua storia ha fatto notizia, ed è subito riconosciuta. È proprio dalla Costa Azzurra, però, che la donna si rifà una vita, facendo la conoscenza di John [Robin Irvine], un nobile londinese, la cui personalità è molto vicina a quella di Claude. Nasce subito una storia d’amore passionale e sincera, cui seguirà un matrimonio breve, complice la cattivissima mrs. Whittaker [Violet Farebrother], madre di John, che, scoperto il passato della nuora, intenterà una nuova causa contro la stessa.
Limitandosi soltanto alla lettura della trama, ci si chiede subito cosa leghi questo film a Hitchcock, le cui impronte sono flebili, ma facilmente individuabili, e grazie alle quali il film è attraversato da una scossa, seppur di lieve entità, che poco può fare per salvarlo.
Divertenti e bizzarre sono alcune sequenze, ad esempio quelle iniziali. Vediamo prima una parrucca, il cui capo si solleva pian piano all’indietro, fino a scorgere il volto del giudice [la stessa sequenza è presente nei due processi]. Stringe gli occhi, non vede bene, e perciò, per distinguere la figura di uno dei due avvocati che parla, si serve del monocolo, fino a contenere la figura intera dell’avvocato completamente dentro la lente. Pensiamo ancora ad un’altra scena, poi divenuta celebre, ovvero quella della centralinista che intercetta la conversazione telefonica tra Larita e John, nel corso della quale i due discutono circa l’eventualità del matrimonio. Non vediamo i due protagonisti, ma attraverso la mimica facciale della centralinista capiamo il senso del discorso, e anche la decisione di Larita, inizialmente titubante. O ancora alla figura del cocchiere, sulla cui carrozza sono seduti John e Larita. Dopo estenuanti giri lungo la costa, approfittando delle continue affettuosità della coppia, l’uomo ferma la carrozza e si appisola. Ingenue, ma non per l’epoca, ci appaiono certe sequenze, ad esempio quella riguardante la rissa tra Aubrey e Claude. Quest’ultimo spara, ma sbaglia la mira. Il furbo Aubrey finge di essere stato colpito, ma come un eroe dei fumetti, prima di cadere atterra, trova la forza di afferrare un bastone e picchiare Claude. In realtà non lo colpisce per niente, perché il bastone non lo sfiora nemmeno.
Fragile virtù, rispetto al dramma da cui trae origine, parte a disgrazia già avvenuta, servendosi di flashback per spiegare il passato. È palese in esso una denuncia sociale volta a combattere il pregiudizio, soprattutto se diretto a colpevolizzare una donna, che, già per questo in svantaggio, ha il torto di piacere agli uomini, e di ostentare troppa modernità. Non le è permessa neanche una seconda vita, perché il marchio del divorzio le rimarrà attaccato per sempre, come un’incisione indelebile. Larita ricorda molto Alicia Huberman [interpretata da Ingrid Bergman] di Notorious, ma è meno incisiva e meno dissoluta. Per tutti, comunque, è una femme fatale, cacciatrice inconsapevole di uomini e preda delle donne. In seguito alla sconfitta che la vede protagonista anche nel secondo processo, non le resta che affrontare i giornalisti e i fotografi, gridando a loro, e alla società, di fotografarla e di spettegolare pure, tanto è una donna morta, uccisa due volte. La perversione hitchcockiana, toccasana dei suoi film, è qui in percentuale elevata. Larita è maliziosa e provocatrice [si butta sulla poltrona, davanti allo sguardo stuzzicato di John, come se stesse per concedersi], ma anche molto sola. John è l’ultima sua ragione di vita, in un mondo che la ripudia. Estremo, per l’epoca, il bacio tra Sarah [Enid Stamp Taylor] e Larita. Le loro labbra si sfiorano appena, ma il bacio ha tutto il carattere di un bacio passionale, ma non così evidente come si potrebbe pensare. Hitchcock provoca, ma con eleganza.
La morale del film si può racchiudere nella frase citata nella sequenza iniziale: “La virtù è premio a sè stessa. Ma la facile virtù è il premio per una reputazione diffamata in società”.
Gilda Signoretti
Regia: Alfred Hitchcock
Con: Isabel Jeans, Franklin Dyall, Eric Bransby Williams, Robin Irvine
Durata: 89’
Formato: Bianco e nero – 4/3
Audio: Musiche 2.0
Distribuzione: PuntoZeroFilm [www.puntozerofilm.it]