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IL RITO di Mikael Håfström

Michael Kovak [un pregevole Colin O’Donoghue alla sua prima esperienza cinematografica], giovane figlio di un becchino, orfano di madre, e già instradato sulla via del mestiere paterno, che, pur di sfuggire all’inquadramento di una vita già confezionatagli da altri, decide di entrare in seminario.

Il suo cammino nella chiesa di Dio, però, non è dettato da una fede veritiera, ma unicamente dall’incontenibile voglia di allontanarsi da una situazione familiare difficile da sostenere. Michael Kovak è anche, e fondamentalmente, un pensatore e, poco prima di aver completato il suo cammino seminariale che lo avrebbe portato a diventare un sacerdote, cosciente dei vacillamenti del suo credo, decide di abbandonare gli studi e con essi la carriera ecclesiastica.

 

Padre Mathew [Toby Jones], uno dei suoi docenti, ha però intravisto nel giovane delle qualità non comuni e, per non assecondarne seduta stante la decisione forse precipitosa, gli propone un patto: passare due mesi in Vaticano per seguire un corso sulla pratica dell’esorcismo organizzato dalla Santa Sede. Mathew è convinto che, una volta trovatosi di fronte alle prove concrete dell’esistenza del Maligno, tutti i dubbi del giovane Michael riguardo la sua fede sarebbero prontamente svaniti.

Le cose, però, non vanno esattamente così: Michael arriva in Vaticano dove, probabilmente per accentuare i toni lugubri della storia, si trova davanti a sacerdoti e suore torvi e schivi, e inizia il corso. Le prove fotografiche e filmate, mostrate da padre Xavier [Cioràn Hinds] durante gli incontri, non bastano, purtroppo, al giovane miscredente per eliminare dal suo animo dibattuto i dubbi sull’esistenza di presenze superiori che lottano per il possesso delle anime umane.

Per questo motivo Xavier decide di inviare Michael da padre Lucas [Anthony Hopkins], un anziano gesuita con alle spalle migliaia di casi di esorcismo, noto in Vaticano per i suoi metodi poco ortodossi.

In una casetta diroccata e invasa dai gatti [specchio della Roma fredda e lugubre, rappresentata nel film], padre Lucas accoglie l’allievo con già pronto il primo rito esorcistico.

 

La protagonista è Rosaria [Marta Gastini], una sedicenne triste e sofferente, probabilmente posseduta da qualche demone. Anche se già durante la prima seduta la ragazza riesca a fornire a Michael le prove di una presenza “altra”, il giovane resta convinto del fatto che più che il demonio sia stato l’osceno genitore a possedere la povera malcapitata: una violenza incestuosa, alla base di un male psichico, che oltre a causare lo stato di shock della ragazza, era fruttata nel non desiderato figlio che portava in grembo.

Questo primo scontro con le tecniche esorcistiche e con il doppio padre Lucas [un personaggio a metà tra il sacerdote e lo stregone] sarà solo la porta d’ingresso che condurrà Michael nell’arcana dimora del Signore delle tenebre.

Il rito di Mikael Håfström è l’ennesimo blockbuster ad affrontare il tema della possessione diabolica, un filone portato agli allori da L’esorcista di William Peter Blatty nel 1973, e moltiplicatosi in numerosi epigoni, più o meno riusciti.

 

Quella esorcistico-diabolica è probabilmente una delle tematiche di Genere a non aver mai conosciuto un periodo di completo congelamento: forse per la facilità con cui riesce a sposarsi sia con l’horror che col thriller [senza snobbare incursioni nella commedia], più probabilmente per la facile suggestione che l’argomento “Diavolo” riesce a scaturire nell’animo dello spettatore medio [mediamente d’estrazione filo-cattolica]. La possibilità di finire nelle grinfie del Male ha il pregio di essere una paura accomunante e, soprattutto, di rimare in stretta relazione con il mondo del “credibile”.

Proprio sul meccanismo del “credere” sembra che stiano lavorando, per incalcarircisi attorno, gli ultimi titoli del cinema diabolico. “Se credi in Dio devi credere nel Diavolo”, recitava qualche mese fa la frase di lancio de L’ultimo esorcismo di Daniel Stamm [2010, di cui abbiamo parlato qui]; Il rito gli da contraltare con un “Puoi sconfiggerlo solo se ci credi”.

Sembra, insomma, che i nuovi titoli del sub-Genere vogliano mettere le mani avanti e specificare che per “funzionare” [come horror, thriller, e via dicendo] debbano poter contare su una “credenza” di base, messa in usufrutto dallo spettatore.

Per accrescere la sensazione del “credibile” Håfström lavora su una storia tratta da fatti realmente accaduti: padre Michael e padre Lucas sono due fra gli attuali esorcisti più conosciuti. Il suo thriller soprannaturale è, quindi, solo il condimento di un piatto di portata fatto di cose che, più o meno romanzate, dovrebbero essere accadute ai due uomini di Chiesa.

 

Ne Il rito c’è, però, qualcosa di speciale: un senso d’occulto che si insinua lentamente nello stesso habitat ecclesiastico. Il diavolo che possiede la ragazza, e che ritorna nel corpo di altri personaggi, lambisce i due preti, corteggia i luoghi sacri, minaccia il Vaticano.

Il rito tratta anche e soprattutto di una costruzione personale e pragmatica di un rapporto con il “superiore” [che sia Diavolo o Dio]; non cerca solo di impaurire, ma tratta di dubbi e traballamenti, di pensieri e preoccupazioni riguardo la fede.

La sofferenza è la cosa che accomuna tutti i personaggi della storia: dai posseduti, che soffrono la presenza del succubo, a Lucas che soffre la responsabilità del suo ruolo, a Michael tormentato dall’inadeguatezza del suo credo e dall’inconcretezza del suo cammino.

I personaggi de Il rito sembrano voler acquistare una credibilità suprema proprio ironizzando su quei film capostipiti del sub-Genere a cui loro stessi appartengono: “Cosa ti aspettavi, teste che ruotano e passato di piselli?”, satireggia padre Lucas dopo il primo incontro tra Michael e Rosaria.

 

Il rito rifiuta le esagerazioni, ricerca la verità anche nella messa in scena del Diavolo, negli spasmi e nelle contrazioni dei corpi ospitanti, ma, purtroppo [e questa è la più grande incoerenza del film], non riesce a farlo fino in fondo.

Per non essere considerati troppo al di fuori dal genere Horror, Håfström asseconda una minima trasformazione [dei volti] dei posseduti, di certo evitabile.

Se non fosse per questo, la ricostruzione di una possessione e del rapporto col Maligno sarebbe stata molto credibile e originale: da una parte i segni di facoltà sovraumane, sviluppate poco a poco [conoscenza inusitata, voci sconosciute, forza], dall’altra un uso degli animali, tradizionalmente legati a fatti d’occultismo e stregoneria, o col Diavolo direttamente.

I gatti [che occupano Roma, e che da sempre sono stati collegati a processi diabolici], le rane, il mulo: tutti animali tradizionalmente doppi, liminali. Il Demonio s’incarna in loro per rapportarsi con gli uomini attraverso una forma concreta e riconoscibile.

E concludiamo con l’Italia: essendo una storia ambientata a Roma e in Vaticano, alcune delle riprese si sono svolte nella capitale [anche se, come ormai da tradizione, gli ambienti vaticani sono stati ricreati altrove, perché il Boss si è dimostrato pesantemente contrario all’avvicinamento della troupe oltre le mura].

 

Quello che colpisce è di certo il modo in cui Håfström dipinge l’Italia e i suoi abitanti: strade perennemente bloccate nel traffico, frequenti incidenti, gente arrogante e fanatici del caffè espresso. Per concludere con una Maria Grazia Cucinotta [la zia della ragazzina posseduta] ancora una volta incatenata nel ruolo di “donna anni ‘50”.

Strano che Il rito sia riuscito a sfuggire a molti dei cliché propri dei film demoniaci, ma che non sia riuscito a fare altrettanto con quelli che configurano l’idea media dell’italiano all’estero.

Luca Ruocco

Regia: Mikael Håfström

Con: Anthony Hopkins, Colin O’Doneghue, Alice Braga

Anno: 2011

Uscita in sala in Italia: venerdì 11 marzo 2011

Sceneggiatura: Michael Petroni

Produzione: ContraFilm

Distribuzione: Warner Bros. Pictures

InGenere Cinema

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