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BIANCO di Roberto Di Vito

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Di certo sarà capitato a molti di essersi svegliati, dopo un lungo sonno, e di non riuscire a riconoscere più il luogo nel quale ci si è riposati. Il problema non sta tanto nel non riconoscere il luogo in sé, ma nel non riuscire a metterlo bene a fuoco, a vederlo, perché un riflesso bianco ci impedisce di distinguerne i contorni. Luigi Mariotti [Igor Mattei] vive questa esperienza in Bianco di Roberto Di Vito: apre gli occhi e, qualche minuto dopo, ha la certezza di essere finito nella mani due rapitori.

Alla consapevolezza di non essere intrappolato in un brutto incubo, ma di vivere una terribile realtà, Luigi prende coscienza anche della sua nuova condizione di rapito. Durante questo percorso pauroso, ma che non ha nulla di tetro e, anzi, brilla di una luce bianca, rilegge il suo passato, e riflette sullo stato catartico in cui ha vissuto fino a quel momento, che lo distingue e lo separa dalla società. È legato mani a piedi, e sdraiato, come un animale da macello, su un materasso lurido, sul quale può dare sfogo solo alla sua libertà di pensiero.

Bianco è un viaggio introspettivo di incontro/scontro, una sorta di seconda nascita. Una volta venuto alla luce, le domande interiori che si fa il protagonista sono relative proprio allo scopo dell’esistenza umana, prima ancora che al suo scopo personale.

Non ha paura di vivere i giorni di prigionia, perché ha sempre vissuto solo con sé stesso, torturandosi con domande inerenti le responsabilità prese o meno, fino ad ora, nella sua vita, alla ricerca incessante di un angolo di tranquillità e serenità, per ora soltanto abbozzate nei suoi pensieri. Luigi, che per debolezza non si è mai esposto più di tanto in ogni circostanza, non ha mai coraggio. Vive sognando il vero Luigi, più incisivo e meno approssimativo, e perciò più maturo.

Il giovane considera il suo viaggio nella vita come un irrazionale contrattempo, assurdo quanto il suo rapimento. Eppure, da buon pensatore/eremita, non perde il suo tempo annullando la sua mente, ma il suo stato di perdente, dal quale non si discosta per insicurezza, gli assicura un amore recente, nostalgico, finito per un motivo banale, e al quale vorrebbe porre rimedio. I ricordi e le immagini del suo amore perduto, attraverso flashback, lo rincuorano e lo cullano, alleggerendogli il peso della prigionia. Forse dovrebbe partire, ma ha paura di non averne il coraggio. Chissà, magari uscendo da quella stanza bianca, dopo aver superato la prima vera prova della sua vita, riuscirà a prendere le redini della sua vita, e avere un posto nel mondo.

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Roberto di Vito, regista di precedenti cortometraggi [citiamo, tra i tanti, Ai confini della città, vincitore, nel 1998, del “Globo d’oro”; mediometraggi e documentari, nonché produttore esecutivo e assistente alla regia al fianco di nomi noti, quali Argento, Moretti, e Avati, prende spunto, per girare il suo primo lungometraggio, proprio da un suo precedente e riuscitissimo corto [della durata di due minuti], da cui riprende anche il titolo. La base di fondo è sostanzialmente la stessa, perché il protagonista è un uomo adulto che, braccato da continui momenti di panico, non riesce a muovere le gambe e scendere dal letto. Anch’egli ha paura di vivere. Nel corto il nemico dell’uomo non sono due delinquenti, ma una sveglia, che con la sua insolenza segna i minuti che separano la notte dal nuovo giorno, e fa crescere l’ansia.

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Con un basso budget che si aggira sui diecimila euro, in buona parte finanziato dallo stesso Di Vito, Bianco è la dimostrazione di come si possa fare un buon prodotto pur non avendo grossi introiti e con pochi mezzi. È per il piacere di fare cinema che Di Vito si mette all’opera, e non per dovere. Bianco lamenta un’eccessiva ingenuità nello script, che trova però giustificazione nella relazione con la veridicità dei fatti e dei luoghi; non ha niente di più e niente di meno della realtà, se non l’aggiunta di un continuo fulgido bianco, che tempesta la vista come un pensiero ossessivo, insistente quanto la colonna sonora, come un senso di colpa dal quale non si riesce a liberarsi. Che cosa simboleggia il bianco? Il bianco è il colore della vaghezza, dell’evasione, dell’erranza, dell’attesa e dell’apprensione per una risposta ad una certa azione, ma è anche lo stato limite tra l’inconscio e l’effettiva realtà, il non luogo che, in quanto tale, difende e protegge il protagonista dagli attacchi esterni e minacciosi della vita, per destarlo poi soltanto quando il “buon” rapitore gli sia avvicina per dargli da mangiare. In Bianco non è solo la scelta del colore a sorprendere, ma anche la cura della fotografia, sempre luminosa ed evocativa. La scelta del regista di concentrare il suo lungometraggio su tre attori, è giusta perché, come sembra di capire, si punta sull’essenziale, ed infatti è su questi pochi elementi che poggia l’intero lavoro. Per nulla scontato il finale, che, nel suo pessimismo, riporta il protagonista sul punto del non ritorno, poiché il ritorno, cioè l’impatto con la vita, incute timore, e non può essere gestito.

Gilda Signoretti

 

Regia: Roberto Di Vito

Con: Igor Mattei, Massimiliano Fedeli, Giovanni Piccirillo

Sceneggiatura: Roberto Di Vito

Produzione: Roberto Di Vito

Anno: 2010

Durata: 82’

Trailer:

InGenere Cinema

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